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ANTICACCIA: AUTOLESIONISMO MADE IN ITALY (da Caccia & Tiro n°1)

ANTICACCIA: AUTOLESIONISMO MADE IN ITALY (da Caccia & Tiro n°1)

Facili accuse, crociate animaliste e scarsa informazione su caccia e armi mettono in difficoltà l’intero comparto armiero, che merita invece di essere tutelato e sostenuto. Tragicommedia all’italiana o controprova di autolesionismo? Le aziende rispondono.

L’Italia, si sa, è uno Stato un po’ atipico. Mentre infatti tutti all’estero esaltano anche ciò che non hanno, nel Belpaese si continua a penalizzare chi meriterebbe, invece, sostegno e valorizzazione. Questione antica, certo, ma anche di estrema attualità, se solo si pensa al settore armiero, invidiata eccellenza oltre confine e bersaglio in patria di attacchi qualunquistici e demagogici da parte del mondo politico e animalista. A farne le spese, ovviamente, sono le aziende di armi, che se da un lato resistono in virtù di un prestigio indiscusso delle produzioni, dall’altro subiscono la ricaduta negativa di una situazione confusa e di una battaglia a suon di slogan che sta sempre più riducendo i consumi interni, facendo temere la cassa integrazione per i propri occupati. Se, infatti, per gli altri settori la crisi economica pare, se non concludersi, almeno mitigarsi in attesa della tanto sospirata ripresa, per le armi italiane il peggio non sembra essere ancora passato.
Come se non bastasse un consumatore cambiato, guidato dalle tasche vuote e dalla necessità forzata di un risparmio concreto, a rincarare la dose arriva, infatti, pure una parte della politica, che in questi mesi ha deciso di offrire un contributo concreto, ma in negativo, a tutto il comparto. Alla lotta tra procaccia e anticaccia, atavica e ormai parte integrante del sistema, si è infatti aggiunta una vera crociata nei confronti di chi pratica questa antica disciplina. Sondaggi poco plausibili vogliono il popolo tutto schierato contro i cacciatori, mentre certa demagogia sostiene accuse da far rabbrividire, o sorridere, a seconda dei casi, come per le affermazioni del ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, che vede nella pratica venatoria un’enorme ferita per l’ambiente e la minaccia per interi ecosistemi.
Scenari apocalittici alimentati dalla scarsa conoscenza, dal momento che la maggioranza dei cittadini ignora che l’Italia è il Paese in cui la caccia è soggetta al più vasto numero di regolamentazioni. Così la “Brambi”, come è stata soprannominata dai suoi “ammiratori”, diffonde la cultura del “Bambi” di disneyana memoria attraverso sottoscrizioni web. Una vera “bambi-nata”, in cui per dimostrare il favore popolare ci si può iscrivere come Pippo, Pluto e Paperino, contribuendo così a testimoniare la propria contrarietà alla caccia. Azione bipartisan, dove il signor mano destra e il signor mano sinistra firmano petizioni internet fuori controllo, immortalate da un video su Youtube, ma pur sufficiente a far chiedere non solo normative ancor più restrittive per i cacciatori, ma persino la messa al bando di questa passione.
Mentre lo Stato, vessato dai costi dei risarcimenti per danni causati dalla fauna selvatica, chiede ai cacciatori di collaborare al ripristino dell’equilibrio naturale, i cacciatori si interrogano sul futuro, fermando gli investimenti. In questo tripudio di accuse e controaccuse, infatti, i praticanti della disciplina, già provati dalla crisi economica e tartassati dal fiscalismo tricolore, bloccano gli acquisti, temendo una svalutazione del prodotto e interrogandosi sulla reale facoltà dell’esercizio venatorio, mentre alcuni vip, potenziali testimonial, sembrano voler nascondere questa passione per “paura” di un linciaggio mediatico. A incassare il colpo, le tante aziende italiane che da decenni sono il vanto di una tradizione armiera apprezzata in tutto il mondo. Dopo aver resistito alla delocalizzazione selvaggia, all’ipertassazione, alla carenza di infrastrutture e alla fuga di cervelli, rispondendo anzi con onerosi investimenti in ricerca e sviluppo alla crisi globale, queste eccellenze si trovano a dover soffrire ancora, tentando di rispondere a un nuovo durissimo e intempestivo attacco.
I grandi produttori di armi osservano così preoccupati la mancata valorizzazione delle proprie realtà, nonostante si possano fregiare del marchio made in Italy, non solo indice di massima qualità, ma vero e proprio status symbol e oggetto del desiderio nel mondo. Un blasone che caratterizza aziende che si distinguono per affidabilità, design, tecnologie, materiali, ma anche prestigio, eleganza, storicità. Così il made in Italy, vero asso nella manica per vincere la partita con il futuro, soffre di un paradossale calo interno dei consumi, nonostante il mondo intero guardi con bramosia i prodotti che possono vantare un tale “pedigree”.
A peggiorare la situazione dentro i confini nazionali è però “l’ignoranza diffusa di questo mondo – afferma Carlo Ferlito, direttore generale di Beretta – per cui stiamo lavorando a stretto contatto con le diverse associazioni per sovvertire questa errata percezione del nostro settore”. L’estremismo che si è sviluppato in Italia, infatti, si sta dimostrando controproducente a tutti i livelli, e le esternazioni di gruppi o singole persone stanno contribuendo a rendere il momento ancor più difficile di quanto già non sia. “Ciò che mi preoccupa maggiormente – continua Ferlito – non è tanto la risposta del mondo politico, quanto le esternazioni infondate di un rappresentante dello Stato. Diventa difficile, infatti, poter controbattere a qualcosa che semplicemente non sussiste e non ha alcuna base certa su cui poter intavolare una discussione. Purtroppo però il sensazionalismo e la distorsione del vero trovano sempre ampio spazio di visibilità e finiscono per alimentare un’errata percezione di questa realtà economica e sociale”.
Le sterili polemiche tra procaccia e anticaccia, fomentate da prese di posizione fondamentaliste tese a radicalizzare il confronto, finiscono così per distogliere l’attenzione dal reale problema, vale a dire la mancanza di informazione su una disciplina che è ben lontana dall’istinto omicida che molti vorrebbero cucirle addosso, ma che al contrario è regolamentata, guidata e indirizzata. “Così mentre in Europa, America e Africa il dialogo con le associazioni ambientaliste è aperto e possibile, riconoscendo loro stesse il valore aggiunto di una caccia regolata e regolare – spiega Nerio Cicotti, direttore generale di Baschieri & Pellagri – l’Italia è come al solito caratterizzata dall’ideologia e dai discorsi degli animalisti della domenica, che però gli altri giorni della settimana non disdegnano il prosciutto”.
Un’ignoranza, quella relativa al mondo della caccia e a quello ancora più vasto delle armi, che coinvolge anche la sfera legislativa, col rischio di portare a risultati disastrosi, con leggi penalizzanti che promettono rovesci su una collettività fatta non solo di praticanti, ma anche di imprese e lavoratori. “Basterebbe fare il confronto tra il prodotto automobile e il prodotto arma sportiva, entrambi eccellenze del made in Italy – spiega Giovanna Fausti, export manager dell’azienda Fausti – per capire la posizione minoritaria in cui il nostro comparto è relegato. Una posizione che il sacrificio e l’impegno quotidiano di molti imprenditori del settore non merita di certo. La burocrazia, già così pesante nel Belpaese, diventa un fardello ben peggiore nel nostro settore, soffocando lo spirito di iniziativa. Del resto il fucile fine è un’arte dell’ingegno umano. Questo all’estero lo sanno bene, mentre in Italia, per l’opinione pubblica, il fucile rischia sempre di essere visto come l’oggetto scatenante di delitti e incidenti vari, anche se le statistiche smentiscono questa visione distorta dell’oggetto”.
Momenti difficili, dunque, in cui le associazioni ambientaliste alimentano la “fobia delle armi” e intensificano gli attacchi al mondo della caccia, definita come un passatempo crudele. Le associazioni del settore non sono certo rimaste a guardare, come testimonia il presidente di Cncn e vicepresidente di Anpam Alessandro Tamburini, anche a voce dell’azienda Benelli: “Siamo riusciti a mettere insieme e coordinare con Face Italia alcuni interventi importanti, dando rilevanza alla figura del cacciatore, collocandola su testate giornalistiche di particolare importanza. Dobbiamo condividere le stesse azioni per dar vita a un fronte coeso, con gli stessi intenti e finalità. Se in questi momenti non si è uniti, infatti, le battaglie non si vincono”.
Un tema delicato, questo, ripreso anche da Alberto Chiampan, presidente di Clever Italia: “Sono certo che le associazioni del mondo venatorio si sono impegnate e si stanno tuttora impegnando al massimo, ma è vero anche che una politica uniforme e mirante a un solo obiettivo farebbe molto di più. Alcune lotte in atto non aiutano certo il settore”. Un’indicazione importante che cerca di spiegare il fatto che “il mercato estero e i cacciatori stranieri non sono stressati come in Italia – ribadisce Chiampan – mentre i principali ostacoli sono da ricercare nelle guerre intestine tra le varie associazioni, oltre che nelle leggi particolarmente restrittive che portano a diverse interpretazioni da regione a regione e perfino da giudice a giudice”.
Dunque una crisi difficile, forse la più lunga di tutti i tempi, con uno Stato che a volte sembra quasi contrastare le imprese, invece di sostenerle. Persino un’azienda storica come Cheddite risente della situazione, come testimonia Andrea Andreani, direttore vendite e marketing dell’azienda: “Per la prima volta dopo oltre cento anni di storia Cheddite Italia per fronteggiare questo momento ha dovuto chiedere la cassa integrazione per un certo numero di lavoratori. Ad aggravare la situazione, le enormi difficoltà procedurali che si incontrano per vendere, acquistare ed esportare armi e cartucce in Italia. Questo sta divenendo sempre più un peso che sta gradualmente facendo perdere competitività alle aziende”.
Le cause, come spiega Moira Rizzini, amministratore dell’azienda Rizzini, sono da ricercare proprio nella natura dell’ambito stesso. “Trattandosi di un settore di nicchia – spiega Rizzini – localizzato a livello territoriale quasi esclusivamente nell’area bresciana, pur comprendendo un vasto numero di operatori diretti e una ricaduta sulle attività della zona pressoché totale, non gode della giusta considerazione, forse anche per il fatto che si tratta di imprese private, senza alcun interesse diretto dello Stato”.
Se a ciò si aggiunge la strabordante produzione legislativa che rende non solo l’utilizzo, ma anche la produzione stessa di armi o parti di esse qualcosa di estremamente complicato, non c’è da stupirsi della sofferenza di questo comparto. “Questa fecondità legislativa, così come queste restrizioni diffuse, sono certamente il frutto di un fattore culturale – spiega Rizzini – perché in Italia c’è l’abitudine a puntualizzare un po’ su tutto nella maniera più totale. Inoltre vi è una componente politica, perché si pensa di arginare il problema mafia mettendo sotto torchio produttori e detentori di armi. L’amaro in bocca resta, perché ci sentiamo, noi produttori come i praticanti, messi al bando, quasi ci si dovesse vergognare del nostro mestiere o della nostra passione. Così si tende a vedere solo la parte ‘criminale’ di questo prodotto e non il made in Italy, nonostante l’obbligo, per ogni arma, di passare al Banco nazionale di prova, norma che implica di fatto una certificazione specifica per ogni singolo pezzo, come massima garanzia”.
Un punto di vista che evidenzia la necessità stessa di un marchio di tutela, sancendo incontestabilmente il pregio di queste opere ed esaltandone anche tutta la tecnologia, la ricerca e la maestria che sta dietro un’arma italiana. Non si può poi neppure dimenticare che oltre all’attività venatoria esiste il settore sportivo, con un tiro a volo che ha, tra tutte le federazioni nazionali, il più ricco medagliere. Gli atleti azzurri, troppo poco ricordati, si distinguono, infatti, ad ogni competizione internazionale per gli straordinari risultati conseguiti, quasi sempre con armi italiane. Dato, questo, da non trascurare anche in vista delle Olimpiadi del 2012, momento di grande prestigio e di potenziale rilancio del settore. Scarsa visibilità, errata percezione e ignoranza diffusa sono quindi acerrimi nemici di questo mondo, come conferma Florence Gaulin, direttore commerciale Nobel Sport Italia: “La nostra attività è capita molto male, e i nostri detrattori sfruttano molto l’ignoranza del pubblico per condannare il nostro operato. Di fatto, la gente non sa quali sono le condizioni per cui un cacciatore può andare a caccia. Molti confondono addirittura la caccia con il bracconaggio, vedendo l’arma come qualcosa di molto pericoloso o il praticante come una persona spietata e crudele.
Le nostre associazioni si stanno adoperando molto, ma questi avversari sono molto più dinamici, con forti lobby alle spalle alle quali dobbiamo opporci puntando anche noi sulla creazione di lobby capaci di contrastare la controinformazione fatta da chi ci si oppone in maniera così efficace”. La sensazione generale è che non siano finiti i mesi in cui stringere i denti, lavorando alacremente sia sul fronte dei consumi che su quello dell’informazione. Ciò non vuol dire che non possa verificarsi un’inversione di tendenza, ma occorre anche una gestione legislativa migliore, se solo si esamina la delicata questione delle deroghe che nel 2010 ha pesantemente inficiato sia il sell out, spiazzando il pubblico, sia il sell in, dal momento che le armerie hanno indugiato negli ordini e in molti casi hanno preferito smaltire le scorte. “L’Italia – sostiene Marzio Maccacaro, direttore commerciale Fiocchi – è un Paese dove non c’è una coerenza nell’applicazione delle politiche e delle leggi, come ha dimostrato il caso del ministro Brambilla che, giocando sulla visibilità mediatica, si è fatta portavoce di una crociata fondamentalista non basata su dati scientifici quanto su una comunicazione a effetto, denunciando l’assenza di un’applicazione omogenea e dignitosa di politiche serie e concrete”.
Un vuoto istituzionale particolarmente grave, in cui certe esternazioni vanno a penalizzare aziende che sono i vessilli di un prestigio universalmente riconosciuto, compromettendo non solo ricavi e utili, ma anche il posto per lavoratori specializzati di altissimo livello. Una situazione che non trova similitudini con nessuno stato estero. “Qui siamo vicini al Ticino – spiega Maccacaro – e nei telegiornali pubblici si comunica giornalmente il numero dei capi abbattuti rispetto alla soglia di animali messi a disposizione. Ciò significa che anche la caccia è gestita come un’informazione normalissima, che entra nella quotidianità dei singoli e della collettività, rassicurando la popolazione sul fatto che questa attività sia controllata e monitorata. Da noi, invece, si portano avanti campagne denigratorie non basate su alcuna realtà, prive di finalità costruttive.
Un mondo che genera più di 3 miliardi di indotto e con oltre 50 mila addetti non può essere danneggiato dalle esternazioni private di un rappresentante del Governo. Esistono i luoghi deputati a discutere determinate questioni, come il Consiglio dei Ministri, e non certo le televisioni. Soprattutto in un momento economico difficile, quando il comparto avrebbe bisogno di sostegno e non di nuovi, reiterati attacchi basati sull’infondatezza delle informazioni e su azioni assolutamente incoerenti. Piuttosto bisognerebbe coinvolgere i giovani, a livello di federazione sportiva, invitarli a provare il tiro a volo, sfatando falsi miti e anzi diffondendo la reale cultura di questo sport, in modo da rinnovare il parco dei praticanti. In Italia invece si fanno giocare i figli alla guerra e si sostengono discipline ben più rischiose, come il climbing estremo, mentre si demonizza l’arma, pur avendo una nazionale straordinaria e nonostante il rischio di incidenti sia assolutamente inferiore rispetto ad altre discipline.
La colpa è anche un po’ nostra, poiché per anni abbiamo operato quasi nell’ombra, senza cercare la giusta visibilità”. Anche Piertommaso Francavilla della Oto Melara è costretto a constatare come “persista in Italia un atteggiamento autolesionista, sostanzialmente ipocrita, per cui viene additato come negativo il mondo delle armi, mentre si pongono due piani differenti un pollo e un fagiano. Per il primo una condizione non certo idilliaca, ma nessuna affermazione a tutela e difesa, mentre per un fagiano cacciato l’intera opinione pubblica viene sollecitata. Certo la crisi c’è, e le previsioni non sono rosee, mentre certe uscite pubbliche finiscono per arrecare ingenti danni a un settore che già soffre”.
“Dobbiamo per forza di cose prendere atto della situazione – illustra Mauro Perazzi, amministratore dell’omonima azienda – con la consapevolezza che ci vorranno anni per vedere una ripresa che possa riportare alle cifre passate. Chiaramente questa crisi non consente di avere i fondi da destinare a nuovi investimenti, così come è difficile trovare nuovi mercati. Tuttavia occorre reagire, resistere e proseguire, senza contare troppo su aiuti esterni”. Nonostante le gravi aggressioni, il mondo venatorio ha scelto di contrastare l’attacco senza mischiarsi alle polemiche, come dimostrano le pagine pubblicitarie di Cncn e Face Italia sulle principali testate nazionali, attraverso lo slogan “La caccia se la conosci la rispetti”. Un’iniziativa che ha suscitato il plauso di numerose realtà, tra cui l’azienda Franchi, nella persona del responsabile di divisione Bruno Beccaria, che a tal proposito ha commentato: “È proprio dalla conoscenza e dalla diffusione di giuste informazioni che si può pensare di superare l’ormai tradizionale e controproducente scontro tra cacciatori e verdi, con toni accesi e polemiche. Bisogna puntare sulla comunicazione di una caccia etica e responsabile, regolamentata e controllata come di fatto è già nel nostro Paese, facendo sapere alle persone come stanno esattamente le cose, unica formula per smentire le troppe accuse infondate”.
Dello stesso avviso è anche la Baschieri & Pellagri, che proprio per contrastare il trend di disinformazione in materia venatoria ha sostenuto e promosso, assieme a tutte le aziende aderenti all’Associazione nazionale produttori di armi e munizioni (Anpam), la sopracitata campagna informativa sui quotidiani e, sempre per mezzo di Cncn e Face Italia, la ricerca condotta da AstraRicerche sugli italiani e la caccia e il relativo press tour che è ora in corso nelle varie regioni italiane. “Come al solito – ha dichiarato Cicotti di Baschieri & Pellagri – colpisce la ‘capacità’, tutta italiana, di penalizzare le imprese che producono, invece di aiutarle. Fortunatamente l’impegno profuso dalle associazioni venatorie è encomiabile, anche se purtroppo c’è ancora troppa divisione fra le stesse e dunque la prima reale necessità è quella di giungere in tempi brevissimi ad un’unità delle associazioni venatorie in modo da poter rappresentare, sul tavolo di ogni trattativa, l’intero mondo dei cacciatori”.
La strada da percorrere sembra essere, dunque, quella dell’unione e della comunicazione, utilizzando gli stessi canali e strumenti impiegati dagli anticaccia, come confermato da Pierangelo Pedersoli, presidente del Consorzio armaioli italiani, e amministratore delegato della nota azienda Pedersoli: “Non basta parlarne tra noi, sui nostri giornali o sui nostri mezzi di informazione. Dobbiamo arrivare al pubblico, non solo a chi di questo mondo è già a conoscenza. Mi auguro che le associazioni venatorie riescano a impostare una regia pressoché unica, perché unendo le forze si avrebbe un contributo rafforzato. Analogamente hanno lavorato molto le associazioni di categoria, come il Consorzio che rappresento, ma anche Anpam, Cncn, Assoarmieri. Mi piacerebbe constatare l’esistenza di un interesse di carattere generale, con una reciprocità e non solo limitandosi al proprio ambito specifico di interesse diretto”. Un altro tema caro al presidente Pedersoli è quello delle normative, perché la grande diffidenza e la poca conoscenza da parte dell’amministrazione nei confronti delle armi rappresenta un grosso ostacolo, soprattutto per la non corretta percezione delle problematiche legate alla produzione e alla distribuzione del prodotto, con grosse ripercussioni per tutte le aziende legate a questo tipo di economia.
“Non dobbiamo attribuire delle penalità alle imprese per la paura che sussistano condizioni e situazioni che di fatto non ci sono, come il traffico d’armi. Bisognerebbe invece dare più risalto all’etica professionale delle aziende e più credito ai produttori. Se ancora si confondono le armi da guerra con quelle da caccia o da tiro, difficilmente sarà possibile esaltare quelle sportive che, anche a livello atletico e di performance, sono in grado di regalare prestigio al nostro Paese. Chiaramente parlandone di più, anche le istituzioni stesse rifletterebbero prima di penalizzare il settore”.
Un percorso, insomma, che sembra ancora una volta tutto in salita, anche se l’averlo individuato in maniera pressoché unanime rappresenta già un notevole passo avanti. D’altra parte, imboccando percorsi collaudati si tagliano solo traguardi già raggiunti. A questa Italia così incoerente, con il cuore troppo grande e il cervello troppo piccolo, così divisa tra eccellenza e ignoranza, la facoltà di ascoltare anche le voci che si levano fuori dal coro animalista.
Se farà orecchi da mercante ai “mercanti” di armi, così come ai produttori e alle intere famiglie che vivono nell’economia del comparto, il made in Italy potrebbe essere offuscato, se non addirittura schiacciato, dal peso del suo stesso prestigio, di cui oggi non tutti percepiscono, più o meno volutamente, la reale portata.
Matteo Barboni

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